Una penna bianca nella sabbia

Racconto di Umberto Sarcinelli

 

Una penna bianca sulla sabbia

Alle spalle le montagne, che danno sicurezza, davanti il mare, che scompare all’orizzonte. Per terra, sulla sabbia dorata, una penna bianca. E’ quella remigante di un gabbiano comune, che il sole ha candeggiato togliendo quel grigio che stonerebbe tra i colori del mare, dell’arena e del cielo. Prendo in mano questa penna, liscio le barbe, la giro alla brezza che soffia alle mie spalle portando odori di terra verso il mare.

La guardo in trasparenza, contro sole per vederne lo scheletro. La sento che resiste all’aria, che la comanda. Era un pezzo d’ala, era un pezzo di libertà e di volo. E’ una penna bianca. Cioè, nella mia mente alpina, quella di un ufficiale superiore. “Dietro ai cannoni, davanti ai muli e lontano dagli ufficiali” mi dicevano i “vecj”, nella saggezza della naja e in quel nonnismo “da stecca” che allora era goliardia, non sopraffazione e umiliazione.

Mi guardo alle spalle: il profilo amico delle montagne di casa, poi verso est, da sinistra a destra le cime dei miti, fino alle basse colline carsiche. Terre d’alpini. Ho fatto un giro su me stesso, tenendo la penna in mano e ora davanti ho il mare che s’increspa a pochi metri da me in mini onde che schiumano in una pellicola sottile. Dai monti al mare, senza soluzione di continuità. Dalle rocce ai massi, dai sassi alla sabbia. La stessa materia, con la quale sono fatti anche gli alpini. Ma il mare… Dove finisce c’è ancora terra, quindi montagne, quindi alpini.

Una penna bianca. La lascio cadere. Scende verso la sabbia facendo vorticare il vessillo e poi il calamo si pianta sulla sabbia. Per un attimo resta verticale, poi una bava di vento la fa girare svellendola dal terreno e infine si stende, quasi nella stessa posizione in cui l’ho trovata. Il sole scalda, mi abbaglia senza il mio cappello d’alpino, e la linea dell’orizzonte sfuma in un tremolio continuo: il mare si confonde sempre più con il cielo e forma come un muro d’universo. C’è un’idea di infinito, in tutto questo, ma svanisce ben presto quando un refolo mi accarezza la barba e istintivamente me la liscio con le dita. Così faceva il colonnello guardando le sue batterie mettersi in postazione. Pochi comandi, con il suo vocione, perché sapeva che i suoi artiglieri avevano imparato bene la lezione e si erano addestrati molto in quelle ultime settimane prima di partire. Prima di imbarcarsi su una nave verso montagne sconosciute. Ma erano davvero montagne? Il colonnello temeva quel viaggio, non quello che l’avrebbe aspettato poi. Mettere in batteria i pezzi 65a (65/17 mod. 1908-1913) someggiati era questione di pochi minuti, caricarli, puntarli e sparare impegnava poco tempo. Non ci sarebbero stati colpi di contro artiglieria, gli era stato detto, i turchi non erano così bene armati. La nave li portò a Tripoli e poi a Derna, spararono, morirono, vinsero. La Tripolitania e la Cirenaica divennero italiane. Era il 1911 e quel colonnello si chiamava Antonio Cantore. Scrisse una lettera di elogio ai suoi alpini. Molti di queste lettere verranno trovate tra gli effetti dei caduti nella prima guerra mondiale. Cantore. Una leggenda!

E il nome della caserma del Terzo, a Tolmezzo. Alle spalle le montagne friulane, davanti il mare di Lignano. Dietro la sicurezza delle cime, delle mulattiere, dei ricoveri, di fronte un viaggio verso mete sconosciute. Nel mare di Capo Ducati il 27 marzo del 1942 il Proteus affondò il Galilea, con mille dei nostri Alpini che rientravano dalla Grecia. Da allora il mare è diventato sinonimo di lutto. E allora noi alpini abbiamo attraversato il mare dal cielo, che è più vicino alle nostre montagne. Albania, Bosnia, Kosovo, Afghanistan. Non abbiamo portato con noi cannoni, solo il mortaio, il nostro onore, la nostra professionalità e quel senso di Patria che non è diviso da nessun oceano. La penna bianca del gabbiano è ancora lì, vicino ai miei piedi, nella sabbia che diventa più umida, con la marea che si alza. Presto sarà portata via dalla risacca, sarà trasportata lontano dalla corrente. Forse andrà a infilarsi nel cappello di Cantore, lassù, dove le penne mozze marciano ancora, sono andate avanti…

Io vado all’adunata.

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